lunedì 30 marzo 2009

Stregata dalla Luna, di Norman Jewison



Ci sono film - come del resto racconti, dischi… - che hanno il dono della Grazia. Quella capacità di colpire nel profondo, di affascinare, di emozionare piano, senza per questo avere la pretesa di essere capolavori, opere immortali. Senza avere la pretesa di dire nulla di definitivo, e persino nulla di importante. 
Sono film che commuovono piano, inducendo al sorriso per il loro modo garbato di narrare fatti piccoli, poco importanti, buffi e ridicoli persino. Film che sanno portarti piano piano lontano lontano, in un mondo che è sempre il nostro, ma in cui le miserie, i contrasti, le liti, le offese e le vendette, le sofferenze di cui si nutre, semplicemente scolorano pian piano, si fanno impercettibilmente lontani, e infine evaporano. 
E la Grazia sta in quel modo garbato di porre le immagini: riprese che sfiorano gli attori e i loro sorrisi; quel modo dolce e rispettoso di sorridere delle banalità, della pacchianeria, che li rende beni persino preziosi nella loro dolce ingenuità, e restituendo loro una freschezza di cui ci rendiamo conto d’avere tanto bisogno. 
Film in cui la Luna sa farla da padrone: una luna magica, irreale ed impossibile, che illumina e irradia e diffonde armonia. E più che amore, in realtà suscita affetto, desiderio di serenità; di dolcezza finalmente. Di pace. Una Luna che conforta, e scalda il cuore, se in qualche modo sa consolare, e far sorridere in questo modo. 
Non sono film ruffiani, no. Sono film che consolano, e Dio sa quanto ne abbiamo bisogno. Non c’è niente di male, in questo. 
E sì, anche stavolta Loretta e Ronny coronano il loro amore. E il mondo, almeno per un pochino, è un posto migliore dove stare.

sabato 21 marzo 2009

L'Esorcista, di William Friedkin


Ho sempre amato L’Esorcista, per una serie di ragioni che tutto sommato ben poco avevano a che fare con la storia, e con il suo eventuale significato. Ragioni che, a questo punto, si son trasformate nell’essere parte della mia storia.
Ci son voluti quasi tre decenni per capire il significato profondo del film – ancor più pregnante di quello del romanzo da cui è tratto. L’Esorcista parla del Male. Non il male umano, generato da comportamenti umani, da piccoli o grandi interessi, convenienze, pavidità. Perché il male generato dall’uomo è sempre un prodotto per così dire di scarto, un effetto collaterale, di azioni che hanno delle ragioni e delle finalità.
No, il male di cui parla il film è il Male Assoluto, che si genera, si sviluppa e viene a noi senza un perché, senza una ragione che sappia e possa comprenderlo; un Male incomprensibile, privo di télos e proprio per questo tanto più inaccettabile, insopportabile, in quanto completamente trascendente l’umana capacità di giustificarlo e di affrontarlo.
In questo senso, ma solo in questo senso, L’Esorcista è un film religioso, ma di una religione realmente divina, che accetta ma non sa, non può e non vuole spiegare i perché dei grandi fenomeni che governano la nostra vita: la Vita, il Male, la Morte… Una religione della finitezza, nel lessico postheideggeriano, che accoglie il Divino nella sua radicale alterità rispetto alla finitezza dell’uomo.

Un film coraggioso, anche oggi: non per il lessico o la messa in scena, ma per l’assunto radicalmente antimetafisico. Un film che non pone domande e non dà risposte, senza per questo semplicemente e naturalisticamente esporre. Che mette lo spettatore davanti alla sua nuda povertà spirituale: chi lo rifiuta perché non vi trova niente, non capisce che nulla c’è da trovare, se non la radicale alterità del divino, e la fragilità del nostro essere finiti.

lunedì 16 marzo 2009

Ultimo bicchiere, di Fred Schepisi

Aveva ragione John Donne: nessun uomo è un’isola. Ogni uomo è un mondo; e quando incontra un’altra persona, nel loro dialogo è un altro mondo che nasce. È così.
Tante persone, una infinità di microcosmi. E ogni storia merita di essere raccontata, nessuna storia è troppo minimale e banale, nessuna storia non ha niente da insegnare.
Come quella di Jack Dodds, o meglio dei suoi amici: uno straordinario romanzo (Ultimo giro, di Graham Swift), un bellissimo film, con un cast strepitoso: Michael Caine, Bob Hoskins, Tom Courtenay, David Hemmings, Helen Mirren. Una storia di vite comuni di persone semplici, messe di fronte alla situazione più comune, la morte di uno di loro; e i dolori privati, le recriminazioni, le intolleranze, i rifiuti, sottaciuti per anni che vengono a galla, un po’ alla volta, nell’esaudire l’estrema ed un po’ bizzarra volontà del defunto. Un universo che un po’ alla volta si rivela, inaspettato e complesso, profondo e sorprendente. La vita. Una vita. tante vite.

Tante parole, comuni ma non banali, per raccontare ciò che siamo: alla fine solo un grumo di ricordi, nostri e un po’ altrui. Ricordi, che si fanno in parole; così che esistiamo sinché abbiamo voce, e sino a che anche la memoria di noi svanisce. Sino a che le parole infine si tacciono, per diventare cenere.

“… finché la cenere diventa vento e il vento diventa il niente di cui siamo fatti.”



sabato 14 marzo 2009

Grazie Signora Thatcher, di Mark Herman

Una banda di ottoni suona nella notte, sotto alle finestre di un ospedale.
E’ l’ultimo concerto, l’ultima esecuzione. La battaglia è persa: gli sconfitti si arrendono rendendo l’onore delle armi a chi – sconfitto dalle circostanze e dalla malattia; sconfitto dalla vita – ancora incita a tener duro, non molla, non si arrende. Uno tosto, un duro.

Un film su chi vive la sconfitta, e chi non la vuole accettare; sulla dialettica tra le due posizioni. E, sì, un film per chi non vuole arrendersi; nemmeno di fronte alla vita, che è una battaglia persa in partenza, perché la vita è una storia che va sempre a finire male.
Siamo tutti perdenti, è un fatto. Ma questa storia ridà dignità a chi sa vivere la sua condizione con la dignità e l’umile orgoglio di ciò che ha saputo fare.

Come una banda di ottoni che suona alle finestre di un ospedale, per qualcuno che se lo merita.

sabato 7 marzo 2009

84 Charing Cross Road, di David Jones


A tutti coloro che mi vogliono bene: “è bello pensare che qualcuno che vive tanto lontano possa essere così generoso con persone che non ha neanche mai visto”.

Ecco per loro, e per i signori Shuuji Sasaki ed Eiki Nagasaki- che non leggeranno mai queste righe, ma che assolvono alle mie richieste delle più prezioni edizioni giapponesi dei miei dischi preferiti - il mio pensiero.

La signora, anziana, è assopita sulla poltroncina dell’aereo, nella penombra. La tendina del finestrino viene aperta, e uno squarcio di sole la desta. Subito si apre in un sorriso che pare raccogliere la luce di quel raggio. Si sporge ad osservare le nuvole sottostanti, illuminate. È felice, quasi eccitata, ma di una eccitazione pacata, consapevole. Non va a Londra per turismo, e non per affari. No: “a unfinished business”, una questione in sospeso.

1949. Helene Hanff (Ann Bancroft) è una scrittrice americana, povera: ama la letteratura inglese, ma i testi che cerca non si trovano, o sono costosissimi. Frank Doel (Anthony Hopkins) dirige una libreria antiquaria a Londra, ed ha ciò che lei cerca, a prezzi straordinariamente contenuti.
Inizia così. Un rapporto commerciale. Ma che subito – come potrebbe essere altrimenti? – si trasforma in rispetto, stima, e quindi cordiale affetto; forse, anche amore.Un film che parla di libri, di un rapporto epistolare tra persone diversissime, ma legate da un comune amore: l’amore per la parola scritta, con la consapevolezza di come essa si faccia vita, sofferenza, gioia, passione, condivisione. Una storia che parla di gentilezza, di generosità, di solidarietà, di vicinanza profonda, e di cose belle.

“… quello di Stevenson è stupendo, mette in imbarazzo la mia povera libreria. Ignoravo che un libro potesse dare tanto piacere al tatto…”

Non riusciranno mai ad incontrarsi, Helene e Frank, e gli altri commessi della libreria, ma il legame che li unisce trascende ogni vicinanza e ogni contatto fisico, perché la condivisione delle parole è più profonda, e significativa, di qualunque altra vicinanza, nello spazio, e nel tempo. Le parole che li uniscono sono parole vere, sono quelle che li anima, che li fa essere e danno e sono il senso – il senso autentico, profondo, meditato, sentito, vissuto – della loro esistenza. Perché tutto il genere umano forma un unico libro, e quando qualcuno muore, il suo capitolo non viene strappato, ma tradotto in una lingua migliore, e una mano riunisce tutte le nostre pagine disperse in una biblioteca, dove i libri giacciono aperti, gli uni accanto agli altri.

Questo film non parla soltanto di una amicizia che travalica lo spazio e il tempo; e non parla soltanto di libri e di ciò che significano per l’esistenza di qualcuno; questo film non parla di un desiderio e di una attesa. Parla di parole, che poi è ciò di cui siamo fatti. Siamo fatti di parole; siamo fatti di niente.
E ciascuno di noi dovrebbe avere un appuntamento all’84 Charing Cross Road che lo attende per tutta una vita.






venerdì 6 marzo 2009

Un mercoledì da leoni, di John Milius

In effetti a me il mare nemmeno piace. Già soffro il caldo, e il sole mi fa venire l’eritema, nell’acqua salata non si nuota bene – è un fatto – e tutta quella sabbia, voglio dire…

Ma la questione è che definire questo un film sul surf, proprio non ci sta: i tre protagonisti fossero stati, putacaso, sciatori fuori pista, non cambiava una virgola, su questo non si discute. Questo è un film sull’amicizia maschile, e in realtà anche questo è pacifico, e sul tempo che passa, e come cambiano le persone, e le cose.

E tuttavia, ancorché tutto ciò sia sicuramente vero, questo non spiega una briciola del suo fascino. Il quale sta tutto nei tempi del racconto, dettati da una dolente voce fuori campo di uno dei tre protagonisti (ma chi dei tre? Non lo sappiamo, e non viene rivelato: potrebbe essere chiunque di loro, che tanto sarebbe lo stesso, come se a parlare fosse la loro amicizia…). E il tempo del racconto è l’imperfetto, tempo durativo e iterativo, che pone l’azione in un passato indefinito e continuato.
In effetti, il film all’uscita fu un fiasco, mentre in Europa è diventato un film di culto molto rapidamente: sarà un caso, non dico di no, ma l’inglese non ha l’imperfetto, e i suoi tempi del passato sono certi, definitivi e conclusi; e questo toglie fascino alla narrazione, poche storie. 

“After we surfed the morning glass, we get tired and we’d go down to the old pier to the Bear’s shop. Bear made our boards and told stories. He knew where waves came from and why. (…) Nobody surfs forever.” (“Spesso andavamo a riposarci al vecchio pontile, nella bottega di Bear. Bear ci costruiva le tavole per fare il surf e ci raccontava le sue esperienze. Lui sapeva da dove venivano le onde e come si formavano. (…) Nessuno sta qui tutta la vita.”)

Andavamo… costruiva… raccontava… sapeva… Una sequela di imperfetti, una sfilza di ricordi malinconici e dolenti, chiusa da un presente indicativo perentorio nella sua asciuttezza: un atto di presa di coscienza definitivo. Nobody surfs forever. Il tempo non si ferma, il tempo passa, il tempo non ritorna.E il drammatico fascino e senso del film sta tutto qui, e rivela la tensione scaturita dall’imperfezione dell’esistenza, dal suo malinconico disequilibrio di fondo: siamo anche ciò che siamo stati, siamo anche ciò che ricordiamo. Siamo ciò che non potremo esser più.