
Ma la questione è che definire questo un film sul surf, proprio non ci sta: i tre protagonisti fossero stati, putacaso, sciatori fuori pista, non cambiava una virgola, su questo non si discute. Questo è un film sull’amicizia maschile, e in realtà anche questo è pacifico, e sul tempo che passa, e come cambiano le persone, e le cose.
E tuttavia, ancorché tutto ciò sia sicuramente vero, questo non spiega una briciola del suo fascino. Il quale sta tutto nei tempi del racconto, dettati da una dolente voce fuori campo di uno dei tre protagonisti (ma chi dei tre? Non lo sappiamo, e non viene rivelato: potrebbe essere chiunque di loro, che tanto sarebbe lo stesso, come se a parlare fosse la loro amicizia…). E il tempo del racconto è l’imperfetto, tempo durativo e iterativo, che pone l’azione in un passato indefinito e continuato.
In effetti, il film all’uscita fu un fiasco, mentre in Europa è diventato un film di culto molto rapidamente: sarà un caso, non dico di no, ma l’inglese non ha l’imperfetto, e i suoi tempi del passato sono certi, definitivi e conclusi; e questo toglie fascino alla narrazione, poche storie.
“After we surfed the morning glass, we get tired and we’d go down to the old pier to the Bear’s shop. Bear made our boards and told stories. He knew where waves came from and why. (…) Nobody surfs forever.” (“Spesso andavamo a riposarci al vecchio pontile, nella bottega di Bear. Bear ci costruiva le tavole per fare il surf e ci raccontava le sue esperienze. Lui sapeva da dove venivano le onde e come si formavano. (…) Nessuno sta qui tutta la vita.”)

amo questo film.
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